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  • : Storie, fatti e commenti a cura di Antonio Montanari Agg. 24.12.2021
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10 janvier 2013 4 10 /01 /janvier /2013 16:35

Alle origini di Rimini moderna (4). Si bruciano gli archivi pubblici nella chiesa di San Francesco, come era successo a Pesaro. Il fantasma della plebe agitato dai potenti locali contro Roma
Se si cancella il passato
["il Ponte", 06.01.2013]
Nel "Sito riminese" di Raffaele Adimari (1616, II, pp. 59-60) si legge: cacciato l'ultimo dei Malatesti il 17 giugno 1528, l'archivio e la cancelleria della nostra città (posti in San Francesco) subiscono un assalto.

L'archivio brucia
Con lo stesso furore con cui s'era cercato di danneggiare il Tempio difeso dalla nobiltà, "la plebe, che sempre desidera cose nuove" asporta "dall'archivio, e Cancellarie, libri, e scritture" bruciati sulla piazza della fontana. Una gran parte di quei documenti è salvata "dal furore plebeo" e posta "in due stancie del Monastero di San Francesco, sotto buone chiavi".
La vicenda ha un'appendice: "andando la cosa alla longa, alcuni Frati ansiosi di vedere, che cosa fosse là dentro, scopersero il tetto per entrar dentro dette stancie, e tolsero molte delle dette scritture, le quali furono conosciute per la Città: al fin poi quando se determinò di liberar dette stancie, poco n'erano rimase, le quali restorono in poter delli detti Rev. Padri di quel tempo, alla venuta poi della F. M. di Papa Clemente Ottavo, havendone notitia non sò come le fece levare impiendone due sacchi e mandolle a Roma […] Et perciò la nostra Città, per tal causa fù priva di molte scritture importanti, e honorate […]".
Adimari parla di Clemente VIII (1592-1605). Si tratta invece di Clemente VII (1523-34), come si legge nella cronaca di padre Alessandro da Rimini (1532), pubblicata da padre Gregorio Giovanardi (1915-16, 1921). Clemente VIII passò per Rimini nel 1598.

Altre fiamme
Dalla cronaca del 1532 ricaviamo due altre notizie. Al tempo di papa Paolo II (1464-71) va a fuoco la sagrestia della chiesa di San Francesco, con perdita di manoscritti "antichissimi ed importantissimi". Questo incendio della sagrestia forse va anticipato all'età di Pio II, a quel 1462 che vede Sigismondo Pandolfo scomunicato e colpito da interdetto il 27 aprile con la bolla papale "Discipula veritatis". Il giorno prima, a Roma, tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono stati bruciati in altrettanti diversi punti della città (F. Arduini). Il 1462 è pure l'anno in cui Sigismondo, per la fabbrica del Tempio, ottiene un prestito dall'ebreo fanese Abramo di Manuello (A. Vasina).
L'archivio malatestiano riminese tra 1511 e 1520, per iniziativa pontificia, è spogliato delle carte superstiti a quelle fiamme. Francesco Gaetano Battaglini nelle sue "Memorie" di storia cittadina (1789, p. 44) osserva che già dall'età comunale, "apud locum fratrum minorum" (cioè nello stesso convento francescano) si trovava l'archivio comunale. Il posto dell'archivio è definito a metà del XV sec. come "sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci".

Il caso di Pesaro
Le fiamme riminesi non sono però le uniche che cancellano le storie del tempo. A Pesaro il 15 dicembre 1514 vanno a fuoco la biblioteca ed i documenti della famiglia Malatesti, dopo che nel 1432 e nel 1503 un "arrabbiato popolo" vi aveva distrutto le scritture pubbliche. Ha osservato un eminente storico della filosofia, Paolo Rossi: "… ci sono molti modi per indurre alla dimenticanza e molte ragioni per le quali s'intende provocarla. Il 'cancellare' […] ha anche a che fare con nascondere, occultare, depistare, confondere le tracce, allontanare dalla verità, distruggere la verità". Nelle fiamme di Pesaro scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente come Cleofe Malatesti, la cui morte (1433) è forse violenta. Cleofe fu scelta dal papa con soddisfazione del suo casato per le nozze con Teodoro Paleologo, despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II. Per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio.
La notizia dei disordini del 1528, nella versione di Adimari, è riportata da Carlo Tonini nel suo "Compendio" (1896, II, pp. 71-72) con un'annotazione: "donde l'Adimari tutto ciò attingesse non sappiamo". Lo stesso Raffaele Adimari dichiara la sua fonte: sono le pagine "sparse" composte dal dottor don Adimario Adimari, rettore di Sant'Agnese e figlio del cavalier Nicolò. Nell'introduzione Raffaele non precisa quale sia la parentela con il sacerdote, ma altrove lascia un importante indizio. Per la congiura del 1498 contro Pandolfaccio, scrive che essa fu organizzata nella casa dei suoi "antecessori", cioè il cavalier Nicolò e "Adimario suo Padre" (II, p. 54). Il Nicolò padre del prete-scrittore Adimario, morto nel 1565, come apprendiamo dallo storico Gaetano Urbani ("Raccolta di scrittori e prelati riminesi"), ebbe altri quattro figli: Tiberio e Cesare (entrambi senza prole), Antonio ed Ottaviano.
Il nostro Raffaele è quindi figlio di uno di questi ultimi due. Ed il prete-scrittore è uno zio (e non prozio come talora si legge) di Raffaele. Don Adimario porta il nome del capo dei cospiratori del 1498, Adimario Adimari, che non riuscirono a cacciare Pandolfaccio, salvato dalla plebe. Da quel momento, immaginiamo, in casa sua non piaceva tanto parlare di popolo urlante. Ed il Raffaele scrittore osserva che esso "sempre desidera cose nuove".

Il liberatore
Tra le "cose nuove", non mettiamo quanto racconta Clementini sul 1528. Partiti i Malatesti, durante la permanenza dei soldati che ristabilivano il dominio di Santa Chiesa, la città in tre giorni "tre muti sacchi provò", ma senza lamentarsene essendo troppo felice del cambio di governo. Tutti allegramente festeggiano l'Arcivescovo Sipontino, presidente di Romagna, "liberatore di questa Patria", con mille componimenti poetici. Il Sipontino, futuro legato della Provincia di Romagna (1540) e di Bologna (1548), nonché dal 1550 al 1555 papa Giulio III, è Giovanni Maria Ciocchi dal Monte. A Siponto (Manfredonia) il suo predecessore era stato lo zio, Antonio Maria. Giovanni fu "buono letterato, e nel maneggiar le cose delle Repubbliche molto destro", come scrive fra Leandro Alberti nella celebre "Descrittione di tutta Italia" (Bologna, 1550).
Luigi Tonini osserva che le truppe dei soldati liberatori assommavano a soli tremila uomini, "stimandosi che la maggior parte del popolo si solleverebbe contro i tiranni". Clementini classifica gli eventi come frutto di "istigazione diabolica" (II, p. 654) oppure quale ingiusta reazione al governo liberale della Chiesa (p. 641): i Riminesi "non per questo furono esentati dalle turbolenze, e travagli, e spese", e per alcuni anni "vissero forse più travagliati, che prima". Anche questo è un modo (elegante) di cancellare la Storia, raccontando fatti di cui non si cercano le cause. La Storia si cancella anche inventandola, come fa Carlo Tonini con il "tumulto per cagione degli Ebrei" (1515).

Popolo pazzo
Sia Adimari sia Clementini sembrano riprendere Guicciardini (presidente di Romagna tra 1524 e 1526), nei cui "Ricordi" (Parigi, 1576) si trova la celebre sentenza per cui "Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori…". Il meglio della Politica è soltanto in un governo di pochi privilegiati. A questa categoria Clementini appartiene per il suo albero genealogico. Sua madre Ginevra proviene dalla famiglia Tingoli presente nelle storie malatestiane del sec. XV, come documentato da Anita Delvecchio. Nel 1502 Bernardina Tingoli sposa un Malatesti del ramo Tramontani, Giovan Galeotto. Un fratello del primo Tramontano sposa Antonia Almerici che dà il nome ad altro ramo. Figlio di Antonia è Almerico, padre di Raimondo Malatesti ucciso nel 1492 dai figli del proprio fratello Galeotto Lodovico. In quel delitto Clementini vide l'origine di tutti i mali che poi affliggono Rimini, "il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori" Malatesti.
La plebe ribelle di cui scrivono Adimari e Clementini, è un fantasma agitato dai potenti locali per difendere i loro privilegi e spaventare Roma.
(4. Continua)

All'indice di "Rimini moderna"
All'indice di "Rimini moderna" Ponte

Antonio Montanari

"Riministoria" è un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", è da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 07.03.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 05.08.1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67, 21.03.2001. © Antonio Montanari. [1772, 31.10.2012. Agg.: 25.12.2012, 15:39]. Mail

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8 janvier 2013 2 08 /01 /janvier /2013 16:10

Offre almanacchi e lunari nuovi. Il viandante gli fa alcune domande, gli chiede se crede che questo 2013 possa esser felice, ricevendo una risposta positiva e piena di entusiasmo. Però, sottoposto a pressante interrogatorio dal viandante, il venditore di almanacchi non ricorda di aver vissuto anni felici da quando, e sono due decenni, gira le strade del mondo ad offrire la sua merce.
Il viandante lo guarda fisso negli occhi. Quel volto come un baleno illumina la sua memoria, e gli dice di averlo già incontrato tanto tempo fa. Però non gli tornano i conti. "Sostenete di vendere almanacchi da vent'anni, ma io vi ho già visto mezzo secolo fa, e adesso pensandoci bene mi ricordo pure dove, sui banchi di scuola, nel senso che eravate descritto in una qualche pagina di un qualche libro, letto durante qualche lezione".
Il venditore scuote la testa, nega, nega, nega, giura che lui non è quell'altro, che quell'altro era un suo antenato descritto nel 1832 da un certo poeta gobbo e malinconico che era nato un po' più in giù, se ricordava bene, a Recanati. Ed allora il viandante gli chiede che cosa ci sia di nuovo per questo 2013 rispetto al 1832 ed a tutti gli anni che si sono succeduti sinora. Il venditore non resta senza parole, l'esperienza di famiglia lunga tanto tempo non è acqua fresca.
E comincia elencando le tante cose che ha letto ed ascoltato sui giornali negli ultimi 15 giorni, per cui risulta vagamente noioso, ma il guizzo finale del suo parlare da venditore di almanacchi lo riscatta e lo nobilita come arguto osservatore delle cose del mondo. È come la chiusura di uno spettacolo di fuochi d'artificio, con quella gran luce che fa piovere gocce di felicità nell'animo degli spettatori.
Suggerisce di considerarlo un venditore aggiornato. Infatti oltre ad almanacchi e lunari quest'anno offre pure un'agenda, genere inconsueto per i suoi affari, tiene a precisare. Ma ha dovuto seguire il mercato, dal giorno in cui alla tv ha sentito parlare dell'agenda Monti da parte di un distinto signore, tanto cortese da non alzare mai la voce, e tanto intelligente da fare discorsi davanti ai quali il nostro venditore d'almanacchi è rimasto ammirato, pur avendo compreso soltanto in piccola parte le cose che ascoltava. Ed adesso dice onestamente che non è colpa del signore che illustrava l'agenda Monti, ma di lui che si era ridotto a vendere calendarietti con tante belle ragazze svestite, e gradite a tal Silvio (rimembri ancor?). [Anno XXXII, n. 1110]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 02, 13.01.2013, Rimini

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29 décembre 2012 6 29 /12 /décembre /2012 11:34

Per le testate giornalistiche d'ogni parte le previsioni sono grigie. Le più celebri fanno già i conti con tanti fattori negativi che ne condizionano la sopravvivenza. Newsweek, settimanale americano diffuso in tutto il mondo, ha appena abbandonato la tipografia e salutata l'edizione di carta, sbarcando su internet. Non ci possiamo illudere che certe sorti tocchino soltanto le celebrità. Noi delle piccole testate, noi dell'informazione locale dobbiamo essere fermamente convinti sino al punto di apparire testardi, che il foglio di carta non va buttato tra le cose del passato, ma deve conservare la sua dignità in nome di una sola piccola regola: il pluralismo immediato e reale delle voci è la garanzia democratica per uno Stato in cui non ci siano soltanto le Voci del Padrone.
Ad inizio di un nuovo anno giornalistico, concedetemi di esprimere un augurio di buona lettura ad un numero sempre più consistente di lettori, la cui coscienza non può considerarsi a posto soltanto se scorrono due notizie al bar sorseggiando qualcosa. Cercansi lettori veri, che ci facciano le pulci non per gusto di polemica antidemocratica: lei non la pensa come me, quindi è un cretino. Ma per il bisogno di andare sino in fondo ai discorsi, raccontandoci il mondo che li circonda, e nel quale tutti siamo più o meno consapevolmente immersi.
Scarabocchiando sulla carta anche locale da 53 anni, ho una certa esperienza sul difficile rapporto tra cronisti e potere. C'è chi non vuole, in nome della virtù e della democrazia, che si raccontino le storie passate o le magagne presenti. Ma chi tace se deve parlare o si chiude le orecchie se deve ascoltare, non rende un buon servizio alla vita pubblica.
Mi succede sovente di definirmi un inutile cronista. La lettura di una pagina del card. Martini appena ripubblicata sulla parabola del servo inutile, mi ha confermato nel voler usare ancora quell'etichetta: "In poche parole: siamo servi inutili, inadeguati e perciò liberi e sciolti nel presente, umili e grati per il passato, capaci di gratuità per il futuro". E poi ancora: "Liberi dal peso insopportabile di dover rispondere a ogni costo a tutte le attese, di dover essere sempre perfettamente all'altezza di tutte le sfide storiche di ogni tempo. Questa libertà e scioltezza ci rende umili e modesti, disponibili a fare quanto sta in noi, a riconoscere quanto ci sta ancora davanti, ad ascoltare e a collaborare con semplicità e senza pretese". [Anno XXXII, n. 1109]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 01, 06.01.2013, Rimini

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17 décembre 2012 1 17 /12 /décembre /2012 10:37

Quando nell'ultimo anno il Paese ha dovuto affrontare situazioni difficili con provvedimenti severi, ci hanno spiegato che si rendevano necessari perché ce li chiedeva l'Europa. Ma nell'ottobre 2011 era stata la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia a lanciare l'allarme sul "tempo scaduto", aggiungendo: "Siamo sull'orlo del baratro". Poi è nato il governo Monti. Il presidente Napolitano dichiarava: i sacrifici stavano "arrivando giusto in tempo per evitare sviluppi in senso catastrofico della nostra situazione".
Ora siamo in attesa dell'appuntamento elettorale. Restiamo fiduciosi, ma dovremmo pure essere consapevoli che l'incertezza regna sovrana. Oggi attribuiamo all'Europa non i sacrifici di cui l'anno scorso parlava Napolitano per evitare la miseria nera nel Paese. Ma addirittura la scelta di quello che dovrebbe o potrebbe essere il vincitore delle prossime elezioni, ovvero il presidente Mario Monti che piace a Francia e Germania e sopratutto, come scrivono i giornali, è desiderato con grande passione dai moderati.
Su questa parola esistono molti equivoci che non dipendono da cattiva volontà di chi la usa, ma dal fatto oggettivo che un'etichetta dice più di una cosa quando la si usa per accorciare i discorsi, o riassumerli interessatamente, dimenticando quali collegamenti oscuri possa avere, o addirittura quanto essa possa negare l'evidenza dei fatti e la verità sulle persone. Ad esempio, come scrive Massimo Mucchetti sul CorSera (16.12), tra di loro in Europa figura pure un personaggio ungherese dai tratti fascisti. Se lo schema di distinzione usato da Muchetti per l'Europa lo applicassimo pure all'Italia, potremmo avere conferma della grande confusione che c'è sotto il nostro cielo. Chi come giornalista ha lavorato al soldo dei Servizi segreti, ha tutti i diritti tranne quello di dirsi moderato. Non è questione di punti di vista, ma di coerenza morale, senza la quale si va poco lontano. Ed infatti, oggi, noi in Italia siamo fermi alle dispute sui puri nomi, come i filosofi medievali, senza badare ai fatti. Per questo l'Europa ci chiede ogni tanto qualcosa, come ad esempio di fare l'uovo di Natale, così risparmiamo quello di Pasqua. Non sappiamo però quale sorpresa esso contenga: un fantasma od una persona vera? Siamo tutti a bocca aperta in attesa di aprire quell'uovo, dimenticando Storia, Costituzione e Politica, non nel senso perverso dei rimborsi di spese ridicole o moralmente oscene. [Anno XXXI, n. 1108]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 46, 23.12.2012, Rimini

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11 décembre 2012 2 11 /12 /décembre /2012 17:24

Gli italiani sono infelici, ma hanno la "forza mite" capace di farli stare meglio. La tesi è di Emanuele Trevi su La Lettura del 9.12: non servono le primavere politiche, basta la convinzione di "possedere una vita propria, inviolabile, irripetibile". Si mettono da parte le regole del mondo "per inventarne altre, più ricche di felicità e di giustizia". Come dimostra un giovane di Gioiosa Ionica, Vincenzo Linarello: guida una cooperativa che produce frutta e tessuti preziosi per combattere il lavoro nero e lo strapotere della 'ndrangheta. Usa una tecnica semplice: quando parla con qualcuno lo guarda negli occhi. "Ecco la storia più bella che si possa raccontare sull'Italia", conclude Trevi.
Dalla cronaca alla storia, attraverso un libro, "Pinocchio", condannato al ricordo per quel naso allungato se lui dice bugie. Una nuova prefazione a cura di Mario Vargas Llosa, uscita in anteprima su Domenica-Sole 24 Ore sempre il 9 scorso, ci obbliga a cambiare ottica di lettura. Il volume di Collodi diventa "un'etica per l'Italia", come dice il titolo a piena pagina, spaventando non poco a prima vista. Infatti esso potrebbe significare che il nostro è il Paese dei Bugiardi. Invece presenta una suggestione che è anche politica. Pinocchio ci mostra che "possiamo essere migliori di quello che sembriamo", se facciamo "appello alla forza nascosta del bene e della verità" che s'annida in noi.
Le due pagine di Trevi e di Vargas Llosa sono di conforto davanti alle cronache avvilenti della crisi politica, con le dimissioni annunciate sabato 8 sera dal presidente del Consiglio. Mario Monti non ha perso il tradizionale modo di punzecchiare chi gli pesta i piedi. Prima si è definito pallido perché il Re Sole si è allontanato da lui. Poi, senza enigmi, ha detto chiaro e tondo il suo pensiero su Alfano, segretario del Pdl, "sempre gentile e premuroso": le sue ultime parole sono state liquidatorie e persino insultanti, per cui Monti ha maturato la decisione di andare al Quirinale aprendo la strada alla crisi di governo ed alle elezioni.
All'immagine di Berlusconi come il Pinocchio dal naso lungo ha alluso senza mezze parole Mario Calabresi, direttore de La Stampa, di solito conservatrice e prudente. Egli, ha scritto, "è anche il premier che aveva lasciato l'Italia sull'orlo del baratro". Ora siamo tornati "nell'emergenza e in preda agli spasmi della peggiore politica". Forse è venuto il momento di sperare nel Pinocchio secondo Vargas Llosa. [Anno XXXI, n. 1107]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 45, 16.12.2012, Rimini

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3 décembre 2012 1 03 /12 /décembre /2012 16:41

A contestare lo Stato questa volta sono i suoi stessi rappresentanti locali, non studenti od operai. Seguo la successione dei fatti. Il primo nel parlare è l'esponente più alto in grado, il prefetto Claudio Palomba. Giovedì 29 novembre rilascia un'intervista, nel suo ruolo di presidente del sindacato dei prefetti, attaccando duramente le decisioni del governo in materia di revisione della spesa pubblica: "Questi interventi sono il presupposto per sfasciare il sistema della sicurezza sul territorio, la più prossima ai bisogni dei cittadini". Palomba aggiunge anche che il problema tocca molto da vicino Rimini, una città per svariati mesi all'anno con una popolazione come Milano.
Sabato 1° dicembre il prefetto Palomba interviene poi alla presentazione del rapporto sulla diffusione della mafia nella nostra Regione, organizzato dalla Associazione Libera di don Luigi Ciotti, e sostenuto dalla Cgil. Sul tema il prof. Enzo Ciconte sottolinea che a Rimini non sono state mai prese posizioni nette. Ha ragione. Il 4 maggio 2010 il futuro sindaco Gnassi sul tema ha parlato di "fattoidi", cioè di cose non vere ma inventate. Dunque, sabato Palomba osserva che sino a pochi anni fa da noi era difficile che il tema venisse preso in esame. E che il fenomeno mafioso in alcuni settori come l'edilizia "è abbastanza radicato".
Ma a prendersela con lo Stato, sui giornali di domenica 2, sono anche il presidente della Provincia di Rimini Vitali ed il sindaco Gnassi. Il tema è quello della possibile proroga per 30 anni delle concessioni balneari, con la gara spostata dal 2015 al 2045. Vitali spiega: "Stiamo assistendo ad uno spettacolo di dilettanti allo sbaraglio che pagheremo noi cittadini, sulla nostra pelle". Stesse parole appaiono nell'intervista del sindaco Gnassi con Franco Giubilei de La Stampa: "Dilettanti allo sbaraglio e demagoghi". Poi aggiunge che a guadagnarci c'è soltanto "qualche parlamentare che tira a campare col consenso a breve termine", mentre a rimetterci ci sono sicuramente gli operatori balneari: "Facciamo i levantini del Mediterraneo, siamo alla farsa".
A prefetto, presidente della Provincia e sindaco, non interessa giustamente nulla del mio applauso da inutile cronista. Aggiungo soltanto che, se le stesse cose le avesse dette in pubblico un semplice cittadino, sventolando uno striscione od alzando la voce per farsi sentire, si sarebbe preso una solenne ramanzina, per essere ottimisti grazie al clima pre-natalizio. [Anno XXXI, n. 1106]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 44, 09.12.2012, Rimini

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30 novembre 2012 5 30 /11 /novembre /2012 16:02

Alle origini di Rimini moderna (3). Gli echi locali dell'impresa dei lanzichenecchi nel 1527. Una violenza che turba la vita politica italiana già segnata dalla discesa di Carlo VIII nel 1492
Sacco di Roma, Europa scossa
["il Ponte", 02.12.2012]



Nel 1526 si sparge la voce che i Malatesti "pretendevano (ed era vero) di tornare in Rimini", racconta lo storico Cesare Clementini. Non è la prima volta, dopo la sottomissione della città alla Repubblica di Venezia (1503). Nel maggio 1522 Sigismondo II figlio di Pandolfaccio se n'è impadronito, dopo il fallimento del tentativo di pochi mesi prima.

Supplizi atroci
Nel 1523 Rimini è restituita alla Chiesa. Pandolfaccio l'abbandona. Suo figlio Sigismondo II vi rientra nel 1527, e lascia il governo al padre che l'8 aprile 1528 riceve l'investitura da papa Clemente VII (Giulio dei Medici). Nessuno è contento. Sigismondo si lamenta della condotta militare ricevuta dal papa. I cittadini accusano i Malatesti per "la solita tirannica crudeltà" (C. Clementini). A supplizio atroce è sottoposto il papalino Pandolfo Belmonti: fiaccole accendono il lardo porcino cosparso sul corpo, poi appeso ad un palo tra il Castelsismondo e la cattedrale di Santa Colomba. Alla fine Roma manda i suoi soldati. Il 17 giugno 1528 termina il potere malatestiano, con gli ultimi rappresentanti inetti e disgraziati (A. Campana).
A proposito di torture: in un testo dedicato al "Sacco di Roma" (Parigi, 1664), il gonfaloniere fiorentino Luigi Guicciardini annota di "non poter ritenere le lacrime, considerando quanti tormenti, e quanti danni l'huomo solamente dall'huomo riceue", e non dalla fortuna come spesso si dice.

Rancori politici
Nel frattempo Roma ha vissuto i giorni terribili del sacco compiuto dal 6 maggio 1527 sino al febbraio 1528, da 15 mila soldati imperiali, per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, scrive Miguel Gotor, definendolo "un episodio clamoroso, destinato a scuotere l'Europa tutta". La fede luterana nel 1525 ha segnato già la tragica repressione dei contadini sollevatisi dal 1524 nella Selva Nera, massacrati ferocemente dal duca di Sassonia.
Nelle storie di Rimini se ne parla poco. Luigi Tonini considera il sacco come una delle tumultuose vicende delle quali i Malatesti profittano per riaffacciarsi a Rimini. Più attento il suo maestro Antonio Bianchi, che rimanda al parere di "alcuni storici" che lo definiscono frutto della politica ambigua del papa che faceva paci o guerre "secondo la speranza d'ingrandire lo Stato proprio e quello de' parenti".
Il sacco turba la vita della capitale del mondo cattolico, con ripercussioni inevitabili sulla periferia. "La percezione generale fu quella di una frattura epocale, che giungeva a sconvolgere il corso della storia", scrive G. Corabi: Roma "tornava ad essere la Babilonia punita dalla profezia giovannea", con implicazioni che riguardavano la storia dell'intera Chiesa, mentre le truppe si abbandonano "a gesti di dissacrazione e profanazione", con un rancore di stampo politico che era diffuso pure in ambienti non protestanti.

La rovina d'Italia
Per Francesco Guicciardini, dalla calata di Carlo VIII (1494) al sacco di Roma si consuma "la ruina d'Italia". Il quadro europeo ha visto nel 1525 la cattura e la deportazione in Spagna di Francesco I di Francia, e l'anno dopo un attacco dell'imperatore Carlo V contro Clemente VII. Il quale, scrisse Francesco Vettori, fu eletto "senza simonia" e visse sempre religiosamente e prudente quanto nessun altro uomo.
Si legge in Cesare Cantù (1865): "la Germania si vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia". La barbarie superba metteva sotto i piedi la civiltà che la mortificava. I lanzichenecchi, istituiti nel 1493, sono soldati mercenari di professione, autorizzati a saccheggiare il luogo dove si trovano se non arriva regolare la paga ogni cinque giorni. È il caso di Roma nel 1527: essi sono rimasti senza soldi dopo la morte del loro generale Giorgio Fronspergh. 
Una relazione diplomatica del 17 marzo, inviata a Roma ma pure ad altri Stati, faceva sperare che con la scomparsa del condottiero "questa gente s'avesse a dissolvere". Invece gli invasori restano a Roma per nove mesi. Li dimezza in numero la peste. Che colpisce anche la popolazione locale, già con più di 10 mila vittime provocate da quei soldati. Furono 6 mila soltanto il primo giorno, secondo la testimonianza di un lanzichenecco.

Nelle case di tutti
Il cardinale vescovo di Como Scaramuccia Trivulzio, insigne giureconsulto milanese con cattedra all'Università di Pavia, assiste ai saccheggi delle case non solo di prelati e mercanti, ma persino dei poveri acquaroli. Ai cardinali, i lanzichenecchi impongono robusti riscatti per lasciar tranquilli i loro palazzi. Ricevuti i soldi, non tengono fede alla parola data. Al cardinal Giovanni Piccolomini è riservata una cattura oltraggiosa, con calci e pugni. A suo fratello chiedono un riscatto che non serve a nulla, perché lo legano in una stalla minacciando di mozzargli il capo se la somma non sarà raddoppiata. Ricevono una cambiale. Tutte le case dei cardinali sono ripulite, e si oltraggiano le donne che vi si trovano.
Leggiamo ancora il cardinale Trivulzio, da una lettera al suo segretario Jacopo Baratero: "Tutti li monasteri e chiese tanto di frati quanto di monache santissimi saccheggiati; bastonate molte monache vecchie; violate e rubate molte monache giovane e fatte prisione; tolti tutti li paramenti, calici; levati gli argenti dalle chiese; tolti tutti li tabernaculi dove era il corpus Domini, e gettata l'ostia sacrata ora in terra ora in foco, ora messa sotto li piedi, ora in la padella a rostirla, ora romperla in cento pezzi; tutte le reliquie spogliate delli argenti che erono attorno, e gettato le reliquie dove li è parso". Un diplomatico veneto scrive che l'inferno è nulla in confronto alla vista che Roma presenta.

Belve fameliche
Il barone Camillo Trasmondo-Frangipani dei duchi di Mirabello, nel 1866 pubblicando a Ginevra una "Relazione" sul sacco di Roma scritta dal barone di Mirabello Giovanni Antonio Trasmondo (intimo di papa Clemente VII), parla di "accozzate orde di venturieri" che assunsero abusivamente il nome di esercito perché erano disordinate e prive di disciplina militare, agendo quali belve fameliche. La "Relazione" ed altri testi che l'accompagnano, sottolineano il contesto politico internazionale in cui avviene il sacco. Si parla pure delle terre di Romagna, dove ogni giorno si facevano "novità per causa di partialità", in una lettera (1531) di Mercurino Catinara, fratello del cancelliere di Spagna e commissario dell'esercito imperiale di Carlo V.

Quadro desolante
André Chastel, sulla scia di Guicciardini e Burckhardt, vede nel sacco di Roma non soltanto un evento traumatico per tutta la penisola, ma una frattura che spezza in due la vita oltre che della città del papa, pure della penisola.
In Romagna il panorama è altrettanto triste, e non per colpa di un sacco imposto da truppe straniere. Augusto Vasina registra "accanto all'abbandono delle campagne, la devastazione talora rinnovata delle nostre città per lotte intestine, saccheggi di mercenari o distruzioni per rappresaglia". È il quadro "desolante di dissesti materiali e sociali, di fronte ai quali impallidisce ogni tradizione nobiliare, ogni memoria di vita cortigiana, per quanto splendide possano essere state". Le masse s'impoveriscono, la finanza locale va in dissesto. Si perde il senso civico. I ceti borghesi hanno un comportamento ambiguo, smarrendo il compito della loro funzione mediatrice fra i nobili e gli strati più umili della società.
Per il sacco, Roma vive una fase di bassa congiuntura, scrive V. De Caprio: è chiuso lo "Studium Urbis", e crolla il mito umanistico della città. Nel 1528 Rimini, passata dal 1523 alla Santa Sede, vede assaltati dalla plebe l'archivio pubblico e la cancelleria posti nel convento di San Francesco. Nel 1529 Carlo V batte le truppe di papa e Francia. L'anno dopo è incoronato a Bologna.
(3. Continua)

NOTA presente soltanto sul web.
L'argomento torna in "Rimini moderna" 4, Se si cancella il passato.
In un testo del 1616, il Sito riminese di Raffaele Adimari (II, pp. 59-60) leggiamo: nel 1528, dopo la cacciata dell'ultimo Malatesti il 17 giugno con il conseguente passaggio definitivo alla Santa Sede, l'archivio e la cancelleria della città (posti in San Francesco) subirono un assalto.
Con lo stesso furore con cui aveva cercato di danneggiare il Tempio (difeso dalla nobiltà), «la plebe, che sempre desidera cose nuove» asporta «dall'archivio, e Cancellarie, libri, e scritture» bruciati sulla piazza della fontana. Una gran parte di quei documenti fu però salvata «dal furore plebeo» e posta «in due stancie del Monastero di San Francesco, sotto buone chiavi». 
La vicenda ha un'appendice: «andando la cosa alla longa, alcuni Frati ansiosi di vedere, che cosa fosse là dentro, scopersero il tetto per entrar dentro dette stancie, e tolsero molte delle dette scritture, le quali furono conosciute per la Città: al fin poi quando se determinò di liberar dette stancie, poco n'erano rimase, le quali restorono in poter delli detti Rev. Padri di quel tempo, alla venuta poi della F. M. di Papa Clemente Ottavo, havendone notitia non sò come le fece levare impiendone due sacchi e mandolle a Roma […] Et perciò la nostra Città, per tal causa fù priva di molte scritture importanti, e honorate […]».
Adimari parla di Clemente VIII (1592-1605) e non di Clemente VII (1523-34) come padre Giovanardi che si rifà alla cronaca del 1532. 
Clemente VIII passò per Rimini nel 1598 (Tonini, VI, 1, p. 382). Cioè settant'anni esatti dopo l'assalto popolare all'archivio di cui parla Adimari.

[Fonte della nota: Nel 1528, libri bruciati. Dalla storia della BIBLIOTECA MALATESTIANA DI SAN FRANCESCO A RIMINI. Notizie e documenti, nuova edizione (2012). Cfr. pure, per l'archivio pubblico la precedente pagina del 2007 dedicata sempre alla BIBLIOTECA MALATESTIANA di Rimini.
Su Raffaele Adimari, cfr. il testo apparso su "il Ponte", in "Quante Storie", 2005.]

All'indice di "Rimini moderna"
All'indice di "Rimini moderna" Ponte

Antonio Montanari

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25 novembre 2012 7 25 /11 /novembre /2012 18:07

La ministra degli Interni Anna Maria Cancellieri ci aveva preso il 22 novembre dicendo d'avvertire il rischio d'infiltrazioni violente nelle manifestazioni studentesche. Aveva precisato che pensava ai "movimenti antagonisti". Che, aggiungo, vedono nel menar le mani lo strumento per realizzare una rivoluzione. Non dico "la rivoluzione", perché ce ne sono di diverso orientamento politico, e quindi se usiamo l'articolo determinativo dobbiamo poi chiederci se sia di destra o sinistra. Noi italiani un po' vecchi sappiamo che il mostro anarchico per le bombe di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, non c'entrava nulla in quella terribile storia.
Se restiamo sul generico, parlando del sogno o progetto di una (qualsiasi) rivoluzione, lo facciamo a ragion veduta, avendo letto una cronaca di Marco Ludovico nel Sole 24 Ore di domenica scorsa, sui cortei romani del giorno prima. Gli osservatori più attenti della Pubblica sicurezza si stanno ponendo un altro tema, dopo che tutto è filato liscio: "La suggestione di una regìa occulta dietro i movimenti violenti di piazza da oggi è diventata più forte".
L'augurio che facciamo a tutti noi, è che quella suggestione convinca a cercare, vicini o lontani, quanti hanno interesse a trasformare i cortei che possono andare tutte le volte lisci, in qualcosa di troppo gasato da provocare guasti politici. Sui giornali del 23 novembre, le cronache da Roma hanno offerto qualcosa di terribile. Il tifoso di una squadra di calcio inglese è stato ridotto in fin di vita, e cori antisemiti hanno accompagnato la partita della Lazio. Tutto è accaduto in uno strano modo. La caccia all'uomo è andata avanti per venti minuti, prima dell'intervento delle Forze dell'ordine.
Dopo i cortei lisci del 24, la ministra ha detto che la democrazia aveva vinto. Ma non tutti erano egualmente soddisfatti. Uno dei più noti editorialisti del CorSera, Antonio Polito, il 25 sotto un titolo potente e gasato (ma si sa, la colpa non è sua: "Gli studenti disobbedienti ai profeti dei disordini") osservava che in piazza c'erano stati degli estremisti, "gente abbastanza in là negli anni" che sfilava al grido di "È finita la pazienza, insegniamo disobbedienza". I maestri di disobbedienza civile non sono mai stati cattivi maestri, perché essa in certi passaggi della Storia si offre come una virtù. Polito invece fa il profeta di sventura. Imita il ministro Maroni che spaventava, ipotizzando atti di terrorismo internazionale. [Anno XXXI, n. 1105]

Antonio Montanari
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"il Ponte", settimanale, n. 43, 02.12.2012, Rimini

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22 novembre 2012 4 22 /11 /novembre /2012 17:44

Ovunque si parla di crisi. Ma le tv più popolari nelle ore di massimo ascolto preferiscono addormentare la gente con la cronaca nera. Un titolo ovvio su La Lettura del 18 scorso, "La recessione aiuta i ricchi", nasconde una proposta rivoluzionaria: per superare la crisi che blocca la mobilità sociale, il Nobel per l'Economia James Heckman, citato da Federico Fubini, propone di investire sull'istruzione infantile.
Lo stesso giorno su La Stampa, Agnese Moro recensiva il libro di Giancarlo Visitilli ("È la felicità, prof?"), dedicato ai ragazzi delle scuole superiori: sono giovani "chiusi nelle pareti di vetro della nostra indifferenza e della nostra incapacità di comunicare". Per cancellare quelle pareti occorrerebbe investire sull'educazione degli adulti, aggiungo ispirandomi ad Heckman. Ma siano capaci, noi adulti, di ascoltare i giovani senza pretendere che la nostra età e l'esperienza li obblighi ad ascoltare in silenzio chi sale sempre in cattedra soltanto perché è vecchio?
Un Grande Vecchio come il presidente della Repubblica il 15 novembre ci ha offerto una lezione controcorrente parlando a Roma agli Stati Generali della Cultura, con un lungo discorso che tocca anche i temi economici. Lo riduco in pillole con sole due citazioni: non si può tagliare la spesa pubblica senza scegliere; questo compito tocca alla politica, ricordando che si tratta non di fare i ragionieri, ma di ragionare, "che sono due cose diverse".
A Venezia, al "Salone europeo della cultura" (23-25 novembre) sabato 24 interviene Ilaria Capua, una scienziata diventata famosa in tutto il mondo per aver rotto le convenzioni del corpo accademico internazione nel 2006, con la decisione di render nota a tutti la sequenza genetica del primo virus dell'aviaria che lei stessa aveva decodificato. Anche lei ha partecipato agli Stati Generali romani, in una tavola rotonda su "Cultura, emergenza dimenticata del Paese". La sua esperienza rivoluzionaria e le parole di Napolitano, ci obbligano a fare i conti per cancellare non le pareti di vetro ma le pareti di spessi mattoni che nascondono il bene comune della Scienza, della Ricerca, della Cultura, spesso utilizzate anche per agire in maniera sporca come lo scandalo nella Sanità modenese conferma.
Ecco perché con enorme tristezza ricordiamo le immagini dei volti sanguinanti dei giovani non violenti malmenati, mentre quelli violenti se la cavano sempre, come se la Fortuna avesse dato loro un lasciapassare. [Anno XXXI, n. 1104]

Antonio Montanari
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"il Ponte", settimanale, n. 42, 25.11.2012, Rimini

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15 novembre 2012 4 15 /11 /novembre /2012 16:46

Non farà più battute, il presidente del Consiglio professor Mario Monti: lo ha promesso in un'intervista a Federico Fubini del CorSera. Si è giustificato: era "abituato a parlare davanti ad un pubblico più limitato e spesso anglosassone, dove la battuta e l'ironia sono elementi essenziali". Un Paese come l'Italia, ci permettiamo di aggiungere, di battute in questi ultimi anni ne ha sentite troppe. Molti ne pagano le conseguenze, altri ne godono ancora i benefici.
Una volta una ragazza parlò per strada a Berlusconi del lavoro che manca, e si ebbe in risposta un consiglio da vecchia zia ottocentesca: cercare un marito ricco. Ad un processo milanese che lo riguarda, sfilano oggi delle signorine, dette Olgettine dal nome della via in cui sono ospitate. In cambio di nulla, continuano a ricevere da lui 2.500 euro al mese.
Sabato 10 novembre, accanto alla loro storia, sui quotidiani c'erano in rilievo altre due notizie, le tasse che Obama minaccia ai ricchi, e le dimissioni del capo della Cia. Al quale l'Fbi ha fatto pagare il disastro di Bengasi (dove l'11 settembre scorso fu ucciso l'ambasciatore Usa in Libia), sotto le mentite spoglie di una vicenda sessuale. Che indigna e fa dimenticare i veri problemi.
La notizia più vergognosa di sabato 10 era quella sullo scandalo al reparto di cardiologia del Policlinico di Modena, con l'arresto di nove medici specialisti. Ogni battuta anglosassone sul fatto, sarebbe oscena. Tranne quella che sottolineasse come la storiaccia italiana sembra ispirata ad un modello americano della sanità che vuole arricchire i privati e far morire i poveri. Obama, osserva Massimo Mucchetti sempre sul CorSera, ha compreso che lo Stato può portare libertà se cura "la bimba di Chicago con la leucemia ma senza i soldi per la polizza", facendo sparire un sistema sanitario "disumano e insensato".
Da noi Monti vuol chiudere molti ospedali. Per i quali sino all'altro ieri sono stati spesi tanti bei nostri soldini. Al governo ha risposto in proposito il presidente della Repubblica: il servizio sanitario del 1978 è una conquista per il progresso del Paese, voluta da tutte le forze politiche. La salvaguardia di questa conquista dev'essere compatibile con la "selezione e riduzione" della spesa pubblica. Ovvero, occhio a come si agisce. Per fare una battuta speriamo anglosassone, è meglio un letto d'ospedale in più che un letto d'albergo per i politici di Parlamento o Regioni che ricevono ricchi rimborsi spese. [Anno XXXI, n. 1103]

Antonio Montanari
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"il Ponte", settimanale, n. 41, 18.11.2012, Rimini

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